Il tragico rifiuto della verità e della grazia

"Occorre imparare a riconoscere e accogliere senza esitazioni i doni e le grazie che Dio ci manda, particolarmente attraverso i suoi amici che ci parlano di Lui e ce lo fanno conoscere. Guai a reiterare il luciferino 'non ti servirò' e le persecuzioni a suo tempo subite da profeti e amici di Dio"



Omelia di Don Leonardo Maria Pompei, XX Domenica del tempo ordinario, anno C, 18 Agosto 2019
Letture: Ger 38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57

“O Dio, fa’ che l’umanità non ripeta il tragico rifiuto della verità e della grazia”. Queste parole, tolte dall’orazione colletta, ben sintetizzano il drammatico ma assai importante messaggio che sgorga dalla liturgia di questa ventesima domenica del tempo ordinario. Dio ha sempre mandato i suoi legatari e ambasciatori, incaricati di portare, a suo nome, verità, grazia, aiuto e liberazione ai suoi figli. Ma, sciaguratamente, la storia della salvezza sembra essere una drammatica sonata che gira intorno a una nota disgraziatamente dominante, accordata sul tragico “non serviam” di antichissima memoria: una memoria che affonda le sue origini nella ribellione a Dio degli angeli ribelli, il cui veleno è stato instillato nella stirpe della razza umana fin dal suo capostipite ed i cui tossici circolano nelle anime, causando l’assurdo e folle rigetto delle salutari medicine inviate dal cielo.
Il profeta Geremia era un vero e grande profeta, che aveva ciò che gli uomini considerano difetto imperdonabile: dire la verità udita da Dio anche quando questa andava a mortificare i pensieri degli uomini o a denunciarne l’insensatezza e peccaminosità di progetti e disegni oppure a stigmatizzarne qualche colpa. Il re Sedecia, degno precursore di Ponzio Pilato, ne avrebbe pagato carissime conseguenze. La prima lettura ci presenta il profeta gettato nella cisterna di Malachia per aver sconsigliato una guerra (poi intrapresa comunque da Sedecia e da Israele) che avrebbe avuto come conseguenza, oltre che la sconfitta, la deportazione in Babilonia e lo sterminio prima dell’intera famiglia di Sedecia e poi del re stesso. 
Gesù non era solo un grande - anzi il più grande profeta mai esistito - quel profeta promesso dal Signore fin dai tempi di Mosè (cf Dt 18,15; At 7,37). Era il Figlio di Dio fatto uomo, “l’autore e il perfezionatore della fede” e a lui i suoi contemporanei serbarono come sorte finale la croce e come atteggiamento costante durante il suo breve e intenso ministero pubblico una continua e grande ostilità, che si manifestò in insulti, trappole ordite, macchinazioni, menzogne, rifiuti, beffe, derisioni, fughe in massa di discepoli (seconda lettura). Quello che avvenne al Capo non può non accadere anche alle membra del suo mistico corpo. E la pazienza che Gesù manifestò ed esercitò dinanzi a tanta ostilità deve essere stile irrinunciabile dei suoi autentici discepoli. Tuttavia dietro questa lotta (solo apparentemente tra buoni e malvagi), c’è un’altra e già profonda guerra: quella contro il peccato, che deve essere combattuta “fino al sangue”. Il male, infatti, non può mai essere oggetto di scelta da parte della nostra volontà, nemmeno per reagire a un male ingiusto. Coloro che fanno il male - e lo fanno perché si chiudono alla verità e alla grazia - devono trovare in noi degli autentici “altri Cristi”, dato che il cristiano altro non è che un “alter Chistus”.
Il Vangelo di oggi anzitutto esprime in termini drammatici la frattura, la contrapposizione che il messaggio di Gesù porta tra gli uomini, ovviamente non intenzionalmente ma - come dicevano gli antichi - “per accidens”. Il fuoco dell’amore che Gesù porta e la forza della verità possono giungere a separarci perfino dai più stretti familiari qualora - disgraziatissimamente - essi dovessero chiudersi al messaggio evangelico e considerare Gesù un falso profeta o un impostore.
Infine il Signore rivolge - agli uomini di allora e a quelli di oggi - un delicato ma profondo invito al discernimento. Il senso del discorso di Gesù era sollecitare i suoi contemporanei a riconoscere in Lui, in base agli evidenti segni che caratterizzavano la sua missione e la sua opera, il Messia promesso. Così tutti noi abbiamo il dovere grave di discernere e accogliere le grazie che il Signore ci manda e gli uomini che, oggi, ne sono i mediatori visibili. Altrimenti incorreremo anche noi nel “tragico rifiuto della verità e della grazia”. Voglia Dio preservarci e salvarci da tale disgraziata e funesta sciagura.

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